domenica 30 novembre 2008

Intervista a Paolo Aresi pubblicata su Bergamosette il 3 ottobre 2008

Lei ha pubblicato romanzi di fantascienza, ha vinto il premio Urania Mondadori nel 2004 con “Oltre il pianeta del vento” e il suo “Oberon” venne giudicato il miglior romanzo italiano di fantascienza pubblicato nel 1987. Perché è passato alla letteratura realistica?
“Avevo già pubblicato un romanzo realistico, con toni noir, nel 1995, era ‘Toshi si sveglia nel cuore della notte’. Un romanzo a cui sono molto affezionato. Ma ebbe scarso successo. Lo scorso anno ho pubblicato in una rivista un lungo racconto ambientato in Alta Valle Seriana, dal titolo “I morti” e pure questo era realistico, con qualche tonalità sovrannaturale. Voglio dire che la narrativa mimetica non è distante dalla mia sensibilità”.

Basta fantascienza?
“Il mio agente letterario dice che bisogna evitare eccessivi eclettismi, che la gente ha bisogno di inquadrarti in qualche modo. Ma io amo la fantascienza e già adesso sto scrivendo un romanzo ambientato fra la Russia degli Anni Sessanta e Marte alla fine di questo secolo. La fantascienza mi affascina per questa possibilità di raccontare il futuro, di mettere in relazione quello che siamo con quello che forse saremo. Mi affascinano gli scenari cosmici, la solitudine e allo stesso tempo il mistero dello spazio, dell’immaginarsi su mondi mai toccati da mani umane. Il respiro del mistero che soffia nel cosmo”.

La protagonista del suo nuovo romanzo non viaggia nello spazio.
“Diciamo che viaggia nello spazio della nostra Penisola. Pedala dal nord della Toscana fino a un paese della Campania”.

Perché una donna protagonista?
“Nemmeno io so bene. Ma mi piaceva l’idea di mettermi alla prova, di raccontare da una posizione distante dalla mia, di descrivere e fare vivere un personaggio distante da me. La storia che stavo per raccontare in realtà era molto personale. Con una protagonista donna riuscivo tuttavia a porre una distanza fra me e quello che dovevo raccontare. Pensavo di guadagnarne in lucidità e in profondità. Il coinvolgimento emotivo dell’autore nella sua scrittura è fondamentale, ma allo stesso tempo bisogna riuscire a mantenere un distacco per conservare una capacità di giudizio riguardo a quello che si va scrivendo. Non è facile. Scegliere una donna è stato forse un artificio. Ma posso anche dire che in questo modo ho dato voce a una parte di me, alla parte femminile della mia personalità. In ciascuno di noi si trova una parte maschile e una femminile. Jung chiamava la parte femminile la propria ‘anima’. Noi maschi spesso non troviamo armonia con questa parte”.

La sua Marcella è una donna fra i quaranta e i cinquanta anni, stanca della vita coniugale, di un marito distante e di figli ormai grandi e autonomi. E’ avvolta in una routine che cerca di rompere con le sue piccole gite in bicicletta. Fino alla decisione improvvisa di prolungare una piccola gita in un viaggio di centinaia di chilometri. Da dove viene questa idea?
“Una volta un amico, Emilio Iannucci, mi fece leggere un suo racconto in cui si descriveva un lungo viaggio in bicicletta. Ho pensato che avrei voluto raccontare una cosa del genere anche io. Il pedalare da soli attraverso l’Italia, sentire il vento in faccia, soffrire sulle salite, sudare, quella meravigliosa sensazione di spostarsi con la forza dei propri muscoli. Sono sensazioni che conosco bene. Volevo raccontarle. E volevo raccontare della possibilità di cambiare vita, di liberarsi delle prigionie, degli involucri, delle abitudini che ci fregano la vita”.

Si spieghi meglio.
“Una sera stavo mangiando una pizza con amici. Un’amica si espresse in un modo che non mi piacque, disse che ormai a quasi cinquant’anni le cose erano così e che se non eri felice basta, non avevi altre possibilità. Io la guardai e vidi come in realtà lei stessa era bella e piena di vitalità e di emozioni da regalare. E così cominciai a pensare che aveva torto e che forse l’estate della vita non è quella che vivi a venti o a trent’anni. Pensai che quella era forse la primavera della vita, ma che l’estate viene quando i frutti sono maturi, quando i figli sono ormai grandi e noi non dobbiamo più niente al futuro. Siamo liberi e possiamo essere noi stessi. E ho pensato che in realtà ci possono essere tante estati della vita anche a sessanta, a settant’anni… con la fortuna di stare bene in salute. E questo ho voluto dire, anche questo, nel romanzo”.

Tante estati in una vita.
“Precisamente. Dipende solo da noi. Dipende solo da noi, se la salute ci assiste, il continuare a pedalare, non smettere, proprio quando la strada è più difficile, la salita più impervia. Perché in cima al Mortirolo della vita, in cima allo Stelvio o al passo del Rombo ci sono i paesaggi più aspri e più belli. E poi ci sono infinite discese e noi siamo felici. Dipende tanto, tanto dal noi, dal nostro modo di guardare l’esistenza, dal nostro impegno”.

Lei ha mai attraversato l’Italia in bicicletta?
“Sono andato tre volte da Bergamo a Roma nella maratona dei trapiantati, persone trapiantate di fegato o di reni o cuore, ecc. che prendono la bici e in sei tappe vanno a Roma per dimostrare che dopo il trapianto la vita continua e che la donazione degli organi è un fatto essenziale. Ho scoperto delle persone coraggiose, ricche di un’umanità positiva che mi ha dato molto. Anche a loro è infatti dedicato questo romanzo”.

Lei tiene corsi di scrittura creativa.
“Sì, da diciassette anni, negli ultimi dieci al Caffè Letterario in via San Bernardino. Ci ritroviamo in quindici, venti persone che hanno la comune passione della letteratura e leggiamo testi di grandi autori, cerchiamo di carpirne i segreti, le tecniche narrative, cerchiamo di entrare nell’anima delle pagine. E poi scriviamo, facciamo giochi di parole… Ognuno cerca una sua strada di espressione. Per divertirsi, per stare bene, per esprimersi attraverso la parola scritta. Io dico di non essere il maestro: maestri sono i grandi scrittori di cui leggiamo le pagine, in cui cerchiamo di calarci per capire profondamente”.

A che cosa serve un corso di scrittura creativa?
“Io dico che serve prima di tutto se ci fa stare bene e se ci aiuta a capire un po’ meglio i meccanismi della scrittura e la necessità di creare un ponte fra il nostro mondo interiore e quello che sta fuori. Il ponte è la parola. Ma nessuno scrive grandi libri se non riesce a fare emergere la propria ricchezza. In ogni caso il corso non è ‘professionale’, non si vogliono produrre scrittori. Anche se a volte c’è qualcuno che produce opere di ottimo livello. Per questo abbiamo pubblicato un libro con ventisette racconti di persone che hanno partecipato a questi corsi, ha per titolo ‘Venti nuovi’”.

Lei come ha cominciato a scrivere?
“Mio padre era operaio, mia madre casalinga, non ho mai avuto una casa con tanti libri. Eppure ho sempre amato leggere, divoravo i libri della biblioteca di classe in quinta elementare, tutti i classici per ragazzi da Verne a Dickens a Molnar… In prima media scoprii la biblioteca dei ragazzi che si trovava dove c’è il monumento a Donizetti e lessi tutti i romanzi di fantascienza che c’erano negli scaffali. Anche allora il senso dello spazio mi suggestionava. L’avventura fra i mondi, fra i pianeti. Che brividi. Ho cominciato a scrivere anche perché sono sempre stato incoraggiato dai miei insegnanti di italiano, particolarmente nel triennio delle superiori, la mia professoressa Lucilla Rigamonti era una donna eccezionale, mi diede fiducia. Ricordo che leggevo pagine di autori e poi a memoria cercavo di riscriverle: mi allenavo al ritmo, alla successione delle parti descrittive, di azione, di riflessione… Avevo capito che avere dei modelli era fondamentale. Ma, nonostante questo, i primi racconti, scritti a diciotto anni, non erano certo dei capolavori”.

E poi?
“E poi ho sempre trovato qualcuno che mi ha incoraggiato, che ha sempre visto nelle cose che scrivevo qualche elemento positivo. Quel tanto per non mollare. Forse è anche per questo che tengo corsi di scrittura: per incoraggiare le persone che ne sentono l’esigenza a scrivere, per sottolineare gli aspetti positivi accanto a quelli che non funzionano, per incoraggiare”.

Quando ha pubblicato il primo racconto?
“Ho esordito con un brevissimo racconto in un concorso indetto dalla casa editrice Nord di Milano. Due paginette scarse. Avevo vent’anni. Il mio primo romanzo, di fantascienza, venne accettato proprio dalla casa editrice Nord nel 1985 e pubblicato nel 1987: era “Oberon, l’avamposto fra i ghiacci”. Vendette settemila copie e fu tradotto e pubblicato anche in Polonia. All’epoca, la Nord era la casa editrice più prestigiosa nei settori della fantascienza e del fantastico”.

Non ha mai pensato di smettere di scrivere?
“No. Ci sono stati momenti durissimi. Fra il primo e il secondo romanzo sono passati otto anni e davvero mi sono sentito in crisi profonda e sono stato male perché sembrava che quello che scrivevo non andava bene, non piaceva. Mi sono criticato in maniera attenta, ho cercato di comprendere che cosa non funzionava. Ho ricevuto tanti no in quel periodo. Mi sono sempre criticato e ho cercato di migliorare. Ma non mi sono mai fermato”.

Esiste una dimensione religiosa nella sua narrativa?
“Esiste, certo. Come può non esserci? La religiosità fa parte della vita, è un elemento essenziale. Il senso del mistero, la profondità dell’essere che il pensiero razionale può soltanto sfiorare. Il senso del mistero stesso è qualcosa di religioso, a mio avviso. E lo si trova in tutto quello che scrivo. In “Oltre il pianeta del vento” è rappresentato dalla scala infinita trovata su un pianeta alieno che il protagonista vuole salire sfidando la morte. In quest’ultimo romanzo, “Ho pedalato fino alle stelle”, Marcella entra in una chiesa e poi in un camposanto e resta lì davanti al mistero del presente e del passato e di tutto quello che è. Io identifico mistero e religiosità e mi colpisce che la chiesa cattolica stessa sia intrisa di mistero. Il mistero di Dio, della Trinità, dell’Eucarestia…”

Quando scrive?

“Scrivo nei ritagli di tempo. A volte anche solo per un quarto d’ora. A volte anche solo due righe. Ma, se sto scrivendo un racconto o un romanzo, è importante mettere giù qualcosina tutti i giorni. Perché è importante la continuità, il sentire dentro, il cullare dentro la storia che stai raccontando, mantenere la tensione emotiva, non bisogna mai prenderne le distanze. Ogni giorno, ogni giorno qualcosina. Anche se il tempo è poco. Perché la storia prende forma man mano, dentro di noi. Prima di dormire inventavo sempre storie a puntate per i miei bambini e le interrompevo sul più bello. I miei bambini mi chiedevano di dire ancora qualcosa, mi chiedevano che cosa stesse per accadere. Io rispondevo che non lo sapevo perché la storia si creava da sola man mano la raccontavo. Ridevo. Ma era proprio così”.

mercoledì 19 novembre 2008

La recensione del romanzo Ho pedalato fino alle stelle pubblicata il 4 ottobre sul Corriere della Sera.

Il romanzo on the road di Paolo Aresi in cerca di una stagione perduta. Fuga dalla vecchia vita di una donna in bici
Mentre sta servendo in tavola il pranzo, Marcella osserva la sua famiglia riunita nella casa al mare: i figli sono adulti e non c' è più «nessuno con cui giocare», il marito Cristian è un agiato commercialista «del Nord» spento in «un' angustia silenziosa, dimessa», la suocera sfoggia «un perfetto sorriso da pescecane». Così una mamma e moglie, insegnante di quarantanove anni («Era stata risparmiatrice, formica, e brava madre»), chiusa nel «rosario di mezzi passi indietro, mezzi passi avanti» della routine, trasforma l' usuale biciclettata mattutina in una «fuga» lungo il Tirreno degna d' un Gimondi o di un Coppi. Non è un sogno impossibile, quello del romanzo Ho pedalato fino alle stelle di Paolo Aresi (Mursia, pp. 206, 14), ma una storia che prende velocità nella volata di un personaggio femminile on the road. L' autore, già premio Urania con il volume Oltre il pianeta del vento (Mondadori), trova il «cambio» giusto raccontando prima «una vita che prende una direzione obbligata e ineludibile come un treno», poi gli scarti progressivi: un soffio di brezza, un «bacio da undicenni» a un bagnino, l' azzurro della bicicletta Bianchi da corsa, e via via le salite sempre nuove, la «gente diversa», i nuovi amici, i ricordi duri di casa che si addolciscono. A poco a poco Marcella è spinta avanti sulla strada, e la gita sulle due ruote diventa un viaggio di cinquecento chilometri («L' idea non la spaventava, anzi») verso il paese dei ricordi di gioventù, degli anni Settanta (la discoteca Diaframma, dove si ballano «i Pooh. No, la Formula Tre») e dei primi amori. La passione ciclistica di Aresi attraversa l' intero libro, tra ricordi del Giro, cambi di camere d' aria e gare tra ciclisti sconosciuti, ma al ritmo dei pedali la protagonista affronta anche le paure («Aveva sbagliato, Marcella lo sentiva nella pancia») e il senso del tempo perduto («Perché tutti quegli anni? Perché tutta quella assenza?»). Sa regolare il cambio da esperta, Marcella, ma non si è mai sfidata: imparerà «la pedalata sciolta» macinando chilometri, tra paesani, ciclisti e nuovi amori, e raggiungerà il traguardo «sulla porta della sua estate». Ida Bozzi Incontri . Il romanzo di Paolo Aresi sarà presentato martedì alle 18.30 a Milano alla libreria Mursia di via Galvani. Sarà presente Felice Gimondi

Bozzi Ida
Pagina 46(4 ottobre 2008) - Corriere della Sera